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Sulla lettura della fotografia. Iconemi che non ci sono

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“Roberto ci mostra un elemento d’arredamento domestico sottratto alla sua natura primaria, calandolo nel contesto della vita d’ogni giorno di un quartiere popolare. La foto è ben composta, gli elementi sono distribuiti quasi in una sezione aurea invertita; lo stacco cromatico è volutamente molto forte, ricercato, e l’angolo del muro finisce così per suddividere ulteriormente l’immagine in nuovi quattro quadranti, e in quello più in alto si percepisce chiaramente la volontà dell’autore di guardare più in là. I colori infatti, da destra a sinistra, passano dal cupo al brillante, ed è come se la figura sacra, appena visibile nell’immagine, finisse per illuminare delle tonalità del sole quel frammento di paesaggio urbano sul quale la credenza, custode di chissà quante e quali storie, ora riposa, come quella scritta appena accennata sul muro fa intuire”.

Nota iniziale: questa mia è una foto scattata per caso passando e, sì, qualcosa volevo raccontare: la fantasia di quelli che scelgono di lasciare i rifiuti ingombrati in strada anziché portarli in deposito (ne ho una serie intera: l’angolo, l’ingresso che porta al grande cortile del caseggiato dove viveva mia madre). Chi lascia il cammino della fotografia fatta per piacere personale (pari dignità ha quella che facciamo per lavoro) tende a prendersi spesso troppo sul serio, e a prendere la fotografia stessa troppo sul serio. In questi anni d’esperienza ho visto più fotografi dimenticarsi di sorridere, finendo per adottare un approccio, nei confronti dell’immagine fotografica, privo d’emozione. Finendo per diventare dei meccanici che si sforzano a tutti i costi di trovare una spiegazione, di imporre regole a qualcosa che nasce senza regole, e se sottoposto a regole forzate diventa artificio. Il valore del pensiero di Roland Barthes è indubbio ma: dobbiamo per forza dedicare ore e ore del nostro tempo a cercare di leggere, in una foto, qualcosa che quasi sicuramente non c’è? Che bisogno abbiamo di applicare una narrativa di qualche tipo a una fotografia urbana, che, in particolare quando è scattata per passione, è frutto di soggettività e spessissimo del caso, e se non lo è non meriterebbe di essere definita fotografia urbana ma teatro di posa? Quale necessità abbiamo di vestire i panni del critico fotografico, se non troppo spesso una sorta di vissuto senso d’inferiorità (ma inferiorità nei confronti di chi o di che cosa)? Non ho risposte, e non le cerco.

Nota finale: la parola “iconema”, nel dizionario italiano, trova corrispondenza principale in cinematrografia e meno in altro, e viene definita come “sequenza minima possibile che sia dotata di significato”. L’iconema è un qualcosa su cui noi costruiamo la nostra immagine: può essere anche un cestino di frutta. Non è un significante di un luogo geografico.

tramonti. Mare e dintorni di sguardi

Una particolarità del golfo triestino è quella di avere il sole che tramonta sull’acqua; l’uno o l’altro punto, sia quello di Duino che l’altro di Muggia a ridosso del confine sloveno, regalano spesso, anche se non la vista del disco rosso fuoco fino alla fine, colori riflessi stupendi, che la macchina fotografica riesce o non riesce a catturare. Alterarli in sviluppo è davvero un peccato, eppure a volte è l’unica maniera per conservare un ricordo che non sia una macchia scura. Quella di sabato è stata una delle volte in cui, visto che la macchinetta digitale ha qualche anno e di disturbo ne tira su parecchio, a meno di non dedicarsi ai tempi lunghi, lo sviluppo è risultato necessario. Uno sviluppo a modo mio. Pomeriggio comunque interessante trascorso con gli amici fotografi di centoFoto e con una modella dall’espressione molto intensa. Il tema supposto era la foto di coppia; non ho avuto successo, o potrei dire – finora, fra le foto di coppia fatte, non ne ho trovate di emozionanti. Diverso è per le foto fatte a Giada, che ringrazio. E per il tramonto. Niente di realistico nello sviluppo di queste mie foto e non occorre dirlo: quelle documentaristiche, accurate, fatte di luce vera, le lascio in archivio. Le foto perfette si fanno in altri momenti e non in un pomeriggio di svago. Queste, che lascio nei miei racconti di questo blog, sono foto di emozioni.

frutti amari. I will gather no more of yours

And my children are hungry to taste the sweet life.
Though my eyes have grown tired, their desire keeps me alive.
I will gather no more of your bitter fruit.

I don’t look east I don’t look west. I don’t understand their accent.
If it’s not soldiers it’s foreign debt.
I will gather no more of your bitter fruit.

And they want to help in America. And the guns they come from America.
But they fight against us North America.
Why are the people so quiet in America?

[Steven Van Zandt, 1987 per Little Steven]

stato della nazione. This war and us

I see them marching off to war. They’re looking so heroic.
I’m told they won’t be gone for long, but that’s a lie and they know it.
Ten thousand gone they won’t return, never to be seen again.
Strategic games is all we learn in the end, but they say:

Don’t you worry about the situation (a message from the telephone).
They out there fighting for the state of the nation (I’m waiting a chance to come home).
They always have to fight the alienation (I realize I’m fighting alone).

When nightmares memories fades to dust, we’ll get back on our feet again.
This war has nothing to do with us, but somehow we’re still involved in it.
Well.
Don’t you worry about the situation (a message from the telephone).
They out there fighting for the state of the nation (I’m waiting a chance to come home).
They always have to fight the alienation (I realize I’m fighting alone).

There’s no place like home.

[Industry, 1984]

ponti su acque agitate

Ieri sera, tornando, ho trovato una sorpresa. Dentro al portone di casa c’erano piccoli regali preparati per San Nicolò da una bambina. Figlia dei miei vicini. Piccola Costanza. Preparato da mamma e papà, ma sicuramente insieme a lei.
San Nicolò è un po ‘il “nonno dei bambini”, per noi che siamo di queste parti che stanno un po’ a est e un po’ al centro. Dovrebbe portare regali alle bambine e ai ragazzi che si sono comportati bene (alla fine porta i regali a tutti). San Nicolò, da noi, arriva di notte, la notte fra il 5 e il 6 di dicembre. Aspettavo anch’io San Nicolò, quando ero piccolo: quando avevo quattro o cinque anni, gli scrivevo una lettera chiedendogli il giocattolo che desideravo, sperando di essermelo meritato perché in fondo mi comportavo bene. Dicono che capisci di esser diventato grande quando ti rendi conto che San Nicolò è in realtà tuo papà e non esiste, è una storia e non un nonno vero. Uno dei momenti della tua vita di uomo, almeno. Quel momento, per me, era arrivato molto presto, e l’immagine di San Nicolò che camminava silenziosamente aprendo piano la porta di casa era scompasa all’improvviso. Ma forse è proprio per questo che lo porto ancora nel mio cuore.

Così, ieri, prima della mia lezione di fotografia, mi sono preso un momento per scendere giù in centro prima di rientrare nel quartiere di San Luigi dove abito, e ho comperato un piccolo Tigro per Costanza. Tigro è il mio preferito, della combriccola di Winnie Pooh: è sempre felice, sorride e salta sulla sua coda a molla, facendosi notare (a casa ho due o tre versioni di Tigro, e potresti pensare che io non sia tanto giusto se parlo ancora con i pupazzi a quarantadue anni; pensalo pure, io terrò comunque ancora i miei Tigri con me). Con la scatola per Costanza in una mano e il mio ombrello vecchio e piegato nell’altra (il piccolo Tigro era al sicuro lì dentro, al caldo e protetto dalla pioggia), ho camminato per un pò tra i negozi e il mercato della fiera del Viale. Una studentessa con un cappello rosso di Natale mi ha bloccato per darmi i volantini con la pubblicità di un nuovo negozio, poi è scappata per fermare altre persone; in un angolo, sotto un arco, un artista di strada stava disegnando Gesù, preparando i gessetti per colorarlo. Quello che ho capito all’improvviso, camminando, è che negli occhi delle persone non trovavo gioia. I loro occhi non sorridevano. Il Natale sta arrivando, e dovrebbe essere un momento di felicità, ma non mi sembra che sia così. Negli anni passati, ricordo che di gioia ne vedevo; forse quest’anno non c’era gioia in me, mentre un anno fa ero stato così felice, ma negli occhi della gente quella gioia c’era. Non questa volta.

Noi italiani siamo ancora persone gioiose. Puoi vedere la gioia negli occhi della ragazza che vende castagne arrostite all’angolo della scuola e sentire il calore del suo sorriso, o trovarla negli occhi della mamma che compra la scatola Lego Atlantis per il suo bambino, o nella coppia d’innamorati che cammina mano nella mano accanto al gazebo della fiera. Osservando le cose semplici che vendono, comprando qualcosa di piccolo solo per portare un pacchettino colorato a casa. C’è gioia, lì. Eppure, oggi ho l’impressione che questa gioia abbia un velo di incertezza. In queste settimane piene di musica per le strade e luci natalizie sulle insegne dei negozi, non posso far altro che vedere che la maggior parte di questi negozi sono mezzi vuoti. Molti camminano in fretta, mani vuote al posto dei regali per bambini e persone care. Volti persi nei pensieri. I giornali sono pieni di notizie su Silvio Berlusconi che combatte con Gianfranco Fini, e poi c’è Mara – “il ministro più bello d’Europa”. Nel frattempo, nella prima pagina, ci sono i risultati dell’ultima partita di calcio tra Napoli e Milano, eppure gli stadi sono ormai quasi vuoti. Sugli stessi giornali non trovi qualcuno che abbia un’idea per fare in modo che la benzina non costi un euro e quarantacinque al litro o per evitare che ti arrivi una bolletta della luce che pesa il trenta per cento in più degli anni passati. Gli italiani hanno un peso, dentro di loro. Ho viaggiato parecchio, e non l’ho visto negli occhi delle persone dei paesi in cui sono stato. Ho visto città e nazioni con grossi problemi (possiamo dire di vivere in paradiso, se proviamo solo per un momento a confrontare la nostra bella Italia della quale spesso parliamo male, con la maggior parte degli altri luoghi), ma ho sempre trovato persone sorridenti. Ne parlavo ieri sera con Mauro, il fotografo da strada: nelle nostre foto, in Italia, non sorridiamo più. I nostri volti sono noiosi.
Sorrideremo di nuovo. Vedo i giovani e trovo ancora entusiasmo, trovo la volontà di far meglio. Faremo meglio; il nostro è ancora un grande paese. Ma questo Natale, in Italia, mi sembra freddo.

[questo accadeva nel 2010. Sono passati tredici anni e presto arriverà anche il 6 dicembre 2023. Il sorriso mio ritrovato è rimasto, tutte le cose che ho scoperto fra il 2012 e il 2016, anche se il poterle condividere con chi amavo è durato tanto e troppo poco allo stesso tempo e nel 2016 è finito, mi hanno lasciato dentro tanto. Berlusconi ha chiuso la sua storia e sarà presto dimenticato ed è il destino di tutti, la benzina oggi è a due euro, quasi tre anni di prigionia da Covid ci hanno trasformati e poi è scoppiata una guerra priva di qualsiasi significato che non sia quello dello scontro economico. La necessità di creare un nuovo mercato. Nonostante tutto questo, il sorriso negli occhi dei giovani è rimasto forte. Per la generazione del Boom, e per quelli che vengono subito dopo, a cui abbiamo lasciato una terribile eredità, è rimasto invece tutto come in quel San Nicolò 2010: una moltitudine di facce, tutte prive di nome]

verità rivelate. Lo potevo fare anch’io

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Un numero molto grande di pensatori si è interrogato, da quanto l’uomo ha iniziato a pensare a oggi, sul significato dell’arte. Serve o non serve? Se serve, a cosa serve? L’arte è uno spreco di tempo e ancor peggio, di questi tempi, di denaro impiegato in cose inutili? Filosofi ispirati da Heidegger, esistenzialista – l’esistenzialismo ritiene il valore dell’, appunto, esistenza umana come fondante e cardine di riflessione – ritengono che l’arte sia il mezzo attraverso il quale la comunità e il singolo si esprimono e interpretano le cose della vita. Secondo gli esistenzialisti l’arte è capace non solo di manifestarsi all’interno di una cultura, ma di cambiarla dall’interno, rivelando mondi nuovi e interiori e permettendo la condivisione. Prima di Heidegger già Hegel riteneva che l’arte fosse espressione di cultura e più in generale dello spirito dell’uomo, ritenendola l’attimo in cui la vita di un particolare individuo raggiungeva il suo apice rivelando la sua vera natura in un modo intuitivo. La nostra mente, quindi, ruota attorna all’arte da sempre, così come non smette mai di cercare di comprendere il significato dell’esistenza stessa. La domanda però è: l’arte è capace di produrre verità? Platone era convinto di no, Hegel di sì: in fin dei conti, artisti dell’Ottocento, l’epoca dei grandi filosofi tedeschi, sono stati capaci di mostrare il mondo in cui vivevano e non solo la sua rappresentazione allegorica o il mito. Il punto finale di questi due minuti di riflessione a fine giornata è che struggersi nel cercare di capire se l’arte possa rappresentare qualcosa con certezza, tratteggiando, almeno, una verità, ma se possa suscitare in noi emozioni tali da farci raggiungere una migliore e più completa comprensione della realtà e trasmettere conoscenza. “L’arte è una bugia che ci fa capire la verità, perlomeno quella che ci è dato di capire”. Picasso. “Lo potevo fare anch’io”, invece, è un bel libro di Francesco Bonami sull’arte contemporanea che mi è stato fatto conoscere, assieme a molto altro, negli anni in cui ho sfiorato l’arte muovendo i primi veri passi da fotoamatore; una lettura che consiglio.

ricordasempre. dal racconto d’autunno

Le guardie erano lì. Ne era certo, perché il gatto era nervoso: non si avvicinava al muro del giardino, continuando a guardare verso l’alto. Sentiva qualcosa. Sicuramente, oltre le verdi e spesse foglie appuntite dei rampicanti che arrivavano fino in cima, oltre la strada che stava al di là della barriera, sedevano gli uomini con lo stemma bianco e le lunghe spade. Guardò Arcil. Era bella; pallida. Avvolta nel manto di pelliccia, portava addosso solo l’abito bianco di seta con i simboli dorati del sole nascente, fissato con una cintura bianca e ornato da fregi di rame. I capelli neri, sciolti, le cadevano in modo disordinato sulle spalle e lungo la schiena. “Loro sanno”, le disse; non era una domanda. “Certo”, rispose, appoggiandosi a lui, la testa sul suo petto. Erano seduti sotto la quercia, sul tronco, più piccolo, di un albero sconosciuto e meno nobile caduto chissà quanti anni prima. Si tenevano per mano. Le sue mani, lunghe e affusolate; le sue dita delicate, quasi gelide durante l’inverno e fredde anche d’estate. Le mani calde e grandi di lui, piene di cicatrici, indurite dal duro lavoro.

“Tutti lo sanno”, gli disse, parlando piano. La sua voce era sempre bassa, quasi rauca: l’amava così tanto. “Quando vengo qui, nel parco, c’è sempre qualcuno che mi guarda. Che mi osserva, che pensa a me. Oggi ci sono i soldati. Ma non è sempre così. A volte c’è l’uomo che ripara il recinto, o l’ambulante che vende le mele, oppure la bambina che mi porta il miele, è tutto parte della mia vita. Lo è stato sempre. Sono tutti dell’Ordine. Le mie guardie del corpo”. Si accoccolò tra le sue braccia, sentendo il suo calore. “La città è mia. Il mio governo; il mio diritto”. “Sei ancora Arcil”, disse lui. “Solo per me”. La baciò dolcemente sulla sua testa, poi sulle labbra. “Sei la moglie del signore, ma non sei più una principessa, qui a Ostelar”, disse ancora. “Lo so”, rispose lei. “Ma lo sono stata per così tanto tempo, Thaen. Non riesco a fingere che non me ne importi”. “Tu volevi esserlo”, disse Thaen, “e tutto ciò che avevi ti spettava”. “Sì, lo desideravo”, rispose Arcil, “ma non più”. Thaen poteva sentire che era nervosa, ora; infastidita da quello che lui le aveva appena detto. Si sentiva in colpa; non voleva ferirla. Era complicata. Tutto, ora, con la presenza di Arakhon nella sua vita, era diventato così complicato. “E cosa desideri di più adesso, mia bellissima principessa”? Le accarezzò le spalle e le baciò dolcemente il collo, vincendole un sorriso. “Oh, ora mi stai prendendo in giro! Non è bello da parte tua”. Gli diede un colpo con il gomito. “Sono la tua signora, tu sei il mio cittadino e ti condannerò, ti farò frustare in piazza…”. “Solo questo?” La baciò ancora. “Lo farò di sicuro! Finché non mi pregherai di smettere… ma userò una frusta di fiori e un morbido arbusto, solo quello… e ti punirò con la lingua, dal tuo petto alla tua pancia e…”. “Capisco”; l’interruppe. Fecero l’amore all’ombra dell’albero, lentamente, in silenzio. Dolcemente. Sotto il suo mantello, senza spogliarsi.

“Non mi sento a mio agio, veniamo qui troppo spesso”, disse Arcil, sospirando. Erano ancora sdraiati sull’erba, avvolti nel mantello. Guardavano il sole, che si avviava al tramonto. “E perché”? Chiese Thaen. “Quando sei qui, quando siamo insieme, è il momento migliore della mia giornata. Sono così felice”. “Amore estivo. Si spegnerà con l’autunno”, rispose lei. Dentro di sé, in fondo all’anima, Arcil sentiva un dolore sordo; lasciò che passasse e lo abbracciò più forte. “Non lo è, Arcil. E tu lo sai”. Arcil annuì, ma il dolore tornò. “Dal momento in cui ti ho incontrato, mi sento bene. Se non ti avessi incontrato… non lo so. Forse sarei morta, ormai. Ero così sicura che sarei morta da sola. Volevo solo il silenzio, e svanire. Poi, sei venuto, è stato come… vedere di nuovo la luce. Si, è stupida come visione, però è così. Ho bisogno di te”. “Sono qui, principessa. Ma lui tornerà, Arcil. Tornerà a casa. E poi, cosa faremo”? Lei rimase silenziosa. Per un lungo momento. E Thaen, mentre aspettava, pensò che il suo cuore avesse smesso di battere. Poi Arcil parlò, calma, determinata. Arcil la principessa; Arcil, la regina di Ostelar. Come Thaen si aspettava che fosse.

“Continuerò a essere sua moglie, Thaen. La moglie di Arakhon. Non posso fare nulla di diverso. Potrei avere il potere di chiedergli di nuovo la mia libertà, di fronte ai magistrati e anche al Consiglio. I cittadini di Ostelar non mi incolpano di troppo. Arakhon è diventato una leggenda, eppure questo è il luogo in cui è nato e c’è chi ricorda gli anni di prima. Aveva anche altre donne, in tutte le Sette Terre, tutta la città lo sa… e ha figli avuti dalle sue amanti. Potrei lasciarlo. Potrei riprendermi, di diritto, i miei castelli”. Thaen, per un attimo, ebbe un fremito: sapeva cosa quella decisione poteva portare. “Ma non lo farò mai. Un ripudio della nostra unione spezzerebbe il suo potere e la sua influenza, e causerebbe nuovi disordini. Mi aspettavo che Arakhon reclamasse, finalmente, il trono dei Valdali, per la prima volta dopo secoli; e con me al suo fianco, lo avrebbe vinto, sarebbe diventato il re, un pari di Elessar, e io la sua regina. Ma lui mi ha delusa, Thaen… davanti a tutti. Ero in ginocchio, a piangere: l’ho supplicato. Di fronte al gran Re del Nord, di fronte a Elessar, Arakhon mi ha tradito. Ho persino pensato di mettere fine alla mia vita: ho pensato di chiedere al più fedele dei miei soldati di uccidermi, proprio lì, davanti a loro. Aginor è veloce e preciso: sa come arrivare al cuore con il suo coltello. Un momento, e tutto finisce”. Arcil fissava qualcosa di fronte a lei, un punto lontano nel cielo, o forse stava semplicemente guardando il nulla. Persa nella sua ritrovata solitudine. Si alzò, coprendosi il seno nudo e la schiena con il mantello di Thaen e lasciando il suo a terra; quando parlò di nuovo, la sua voce era più forte. “Ma siamo andati avanti. Negli anni, ho imparato a conoscere Arakhon, e lo rispetto. Non l’ho mai amato, e lui lo sa bene. Non l’amerò mai. Siamo troppo diversi. È un grande uomo durante il giorno, e un grande amante la notte, quando ne ho voglia. Non è mai cattivo, trovo in lui molta generosità. Di tutte le persone che ho incontrato nella mia vita, lui è l’unico che… è l’unico che definirei un uomo decente. E tu, Thaen, certo. Ma è anche rozzo, Arakhon: inelegante. Non è ignorante, no: ha studiato duramente per poter essere quello che è ora. Ha sofferto. Arakhon è un principe con i modi di un vaccaro. E balla come un vaccaro. Oh, mi piace molto ballare con lui, a volte… può far sentire importante una donna. Che è, per noi nella Terra dei Sette, cosa non comune. Spesso, c’è stato odio e amarezza fra noi: ma non più”. Si alzò, sistemandosi di nuovo e tirando la cintura sui fianchi, dando al vestito la forma del suo corpo. “Inoltre… non è un vero uomo, non è uno di noi. È di sangue misto: Arakhon è figlio di una donna che era, per parte sua, di pelle bronzea, una figlia bastarda di avventuriero. No, non ho amore per Arakhon: come potrei. Amo i figli che mi ha dato però: li amo così tanto, e questo è un motivo in più per donargli il mio rispetto: per la sua forza. Sono una donna fragile, Thaen, sono sempre stata fragile. Tutti mi hanno detto che sarebbe stato molto difficile per me avere un figlio. Ma Arakhon ha un seme forte: non pensavo di poter esser madre, ma ho fatto invece in tempo, prima che il mio corpo diventasse ciò che è adesso. No, non lo amo, Thaen. Amo te. Ma devo stare con lui. Voglio”.

“E se dicessi di no, Arcil?”, chiese Thaen. “E se me ne andassi di nuovo in mare? Come posso trovare la forza per vivere qui, sapendo che non posso incontrarti e stringerti e baciarti quando desidero farlo? Sapendo che non posso parlare con te quando tu e Arakhon siete assieme. Devo continuare a fingere di conoscervi solo come i miei padroni, e sperare che nessuno gli dica la verità? Meglio andar via”. “Mi spezzerai il cuore, allora. Mi spezzerai. Non immaginerei mai di poter amare un altro uomo, dopo tutto quello che è successo. La mia sofferenza, le lacrime. Dormire di notte, sognare di esser felice, poi svegliarmi nella mia stanza, da sola, al buio. Piangendo. Non possiamo stare insieme, Thaen; ma non possiamo separarci, no, non voglio pensare che te ne andrai… ma… capisco. Se lo fai, capirò”. Stava piangendo, ora. Per un altro lungo momento rimasero di nuovo in silenzio. Guardandosi l’un l’altro. La strinse di nuovo: l’afferrò per la vita, caddero e rotolarono sull’erba. Risero fino a restare senza fiato, lui supino e Arcil sopra di lui. “Ti amo. Rimarrò, Arcil; per sempre. Non importa cosa farai. E non ti chiederò mai qualcosa che non sei pronta a dare”.

kafka tu che kafko anch’io. PA e l’hardware obsoleto

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Se per caso un giorno o l’altro ti trovassi solo sai, senza una compagna che poi ti aiuta nei tuoi guai. E se poi il cielo blu si chiude all’improvviso su di te, e ti senti come un ladro che ha paura anche di sé, guardati allo specchio e guarda un poco, un poco intorno a te.

Reduce da un pomeriggio di considerazioni sulle pubbliche amministrazioni, sul diritto all’oblio dei dati speciali e sull’intrinseco potere dei funzionari in una società post borbonica o post asburgica che sia, m’imbatto nel post molto interessante di un amico. Le pubbliche amministrazioni hanno deciso di compiere un atto generoso e, anziché buttarli via, donare i loro vecchi personal computer ad altri enti pubblici o privati senza scopo di lucro che ne facciano richiesta. Molte aziende lo fanno da decenni, anche se la procedura, proprio a causa di lacci e lacciuoli statali, non è mai agevole, essendo in pratica nel nostro paese quasi illegale regalare. Fin qui bene: un passo avanti. Lette le modalità, m’imbatto nella pagina numero cinque del documento che, con riferimento a una nuova procedura che l’ente pubblico ha deciso di battezzare Phoenice ovvero Procedura Hardware Obsoleto ENtrate In Cessione a Enti (citazione: “The lauda ‘O Signor, per cortesia’ is a striking prayer that God will afflict the speaker with a long catalogue of diseases and other misfortunes in both life and death” – e mi viene in mente che l’animo poetico dell’autore del nome possa aver pensato alla nuova vita ridata ai preziosi oggetti elettronici, che rinasceranno dalle proprie ceneri), spiega come vengono gestite le situazioni di parità: “Al momento della formulazione della domanda attraverso l’applicativo Phoenice sarà necessario indicare 3 numeri diversi compresi tra 1 e 90. Un quarto numero sarà generato automaticamente dall’applicativo a partire dal Codice Fiscale del richiedente. Questi numeri serviranno per ordinare la graduatoria delle richieste aventi la medesima priorità. Essi saranno infatti confrontati con i primi quattro numeri del lotto estratti sulla Ruota Nazionale…”. Di colpo, mi sento più sereno.

Solo tu mi sai dare, cose vecchie sempre nuove da sognare. Mille volte tu lo sai, non è stato uguale mai.

sam8centimetri. Never going home

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Music (we can do it). We’re only human (I can feel it). Music (got me, hit it). Yeah, let’s repeat it (can you feel it?). If you wanna ride, come ride with me. Take me by the hand, feel the chemistry. Losing track of time in the ecstasy. It’s getting out of hand, it’s just you and me. And we are never going home, oh-whoa, oh-whoa.

Sam 8 centimetri, il mio piccolo amico superdotato, ha viaggiato con me in tutte le mie automobili, dal primo chilometro dell’Alfa rossa a guida inesperta finestrini manuali e clacson rotto, fino all’ultimo, piuttosto stanco, della Volvo con il turbocompressore otturato. Accompagnandomi sulla Prelude dei giorni più felici da Monaco a Tatti, sull’Audi della maturità da Genova ad Amburgo, per qualche tragitto sull’Y10 bianca nelle strade di casa mia e infine da Bologna a Vienna sulla dannata Volvo Kinetic configurazione nordica, l’auto che non avrei mai voluto e che pure è stata l’unica che io abbia mai preso nuova, che ha fatto ormai nove traslochi (uno mio e nove no), che porta con sé più ricordi brutti che momenti belli, e che però non se ne vuole mai andare. Scherzi a parte, è sempre stata generosa con me, la Volvo: fedele nonostante la trascuratezza e le male parole, ed è giusto tributarle riconoscenza, in fondo appunto c’è ancora. Assieme a Sam, grigio ormai di capelli, ma sempre con i suoi 8 centimetri.

If you wanna fly, come fly with me. We’ll go anywhere that you wanna be. If you’re feeling down, here’s the remedy. Losing track of time, it’s just you and me. And we are never going home, oh-whoa, oh-whoa.

ritratto. Wouldn’t it be good

We got the pleasure in the right way. Il ritratto è da sempre un modo di raccontare una persona, di parlare di lei o di lui senza che le parole siano necessarie. Attraverso la storia, il ritratto è stato molte cose: una maniera per rappresentare con semplicità un viso, uno strumento per descrivere un contesto, un omaggio a una figura potente o a un dio. Nella società dell’immagine, quella di oggi, si è evoluto fino a diventare prima fonte d’ispirazione, poi astratto e poi, con l’intelligenza artificiale, persino irreale nella sua inequivocabile realtà. Chiunque sia il soggetto, il ritratto cerca di rivelare la sua espressione più intima, di catturare l’emozione di un momento che altrimenti verrebbe per sempre persa. La fotografia, peraltro, e quella digitale incredibilmente molto di più di quella stampata su carta, si perde per sempre in un attimo. Attraverso il ritratto, il soggetto rivela la sua natura all’artista, si mette a nudo o viene messo a nudo come più maestri fotografi, e meno pittori, hanno detto?

Il ritratto rivela la personalità di chi sta di fronte all’obiettivo? Niente potrebbe essere meno sicuro e anzi, e meglio: niente potrebbe essere più falso. In effetti, che cosa c’è di più semplice del nascondere la propria identità dietro una maschera o un personaggio, come si fa con il viso ammantato di trucco sul palcoscenico di un teatro? Il viso è la parte più in mostra del nostro corpo, eppure rimane, attraverso la storia, la più misteriosa, quella che più si presta al racconto e al romanzo, al sacrificio, all’amore e all’inganno. Specchio dei sentimenti, o corazza dell’animo. La tecnica e l’intuizione creativa permettono a un bravo fotografo ritrattista di usare le espressioni per inventare le emozioni, eppure allo stesso modo si può essere capaci di intravedere e catturare la spontaneità. Inutile perdersi qui a dire che bisogna essere capaci, come fotografi, di capire la fisicità del soggetto nel suo complesso, di trovarsi in sintonia con il suo modo di essere e di esprimersi, di capirne lo stato d’animo; inutile parlare di luci, fondali e colori, questo non è un blog sul quale si insegna la fotografia. Al massimo se ne può scrivere di getto, lasciando alle foto il ruolo di protagonista. Vanità. Day by day by day by day: è più facile capire la verità e la vita, se si pensa che siano un gioco.